INTERVISTA ALLA DOTT.SSA MARIA LIA LUNARDELLI PT.3

Si conclude oggi il nostro confronto con la dott.ssa Maria Lia Lunardelli, Direttore della UO Geriatria dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Bologna Policlinico S.Orsola Malpighi, in occasione dell’uscita del nuovo numero del trimestrale, dedicato al tema degli anziani e dell’invecchiamento. Grazie alla dott.ssa Lunardelli abbiamo una panoramica competente e ragionata sull’invecchiamento e le malattie neurodegenerative. Abbiamo pubblicato l’interessante intervista in tre tranches. Questo articolo è l’ultimo dei tre che compongono la riflessione.

La ricerca sulle patologie neurodegenerative e progressivamente invalidanti come l’Alzheimer, il Parkinson, la demenza e altre su quali obiettivi terapeutici e diagnostici si sta muovendo?

L’impatto globale delle demenze continua da aumentare e rappresenta una sfida per tutti i sistemi sanitari. Da circa 20 anni sono disponibili due classi di farmaci: gli inibitori delle colinoesterasi e la memantina, usati come trattamento sintomatico per migliorare temporaneamente la memoria e altre funzioni cognitive. Questi farmaci hanno un effetto clinico modesto, rallentano la progressione della malattia, ma non sono in grado di modificarne la storia clinica che è di tipo progressivo e involutivo. Alcuni leader nazionali hanno posto come obiettivo per il 2025 l’individuazione di trattamenti preventivi e terapeutici efficaci per combattere la demenza. Questa data, ormai molto vicina, probabilmente non tiene conto dei reali tempi della ricerca e del lungo percorso necessario allo sviluppo di nuovi farmaci ed era stata ritenuta possibile dai risultati di alcuni trial farmacologici che sembravano molto incoraggianti. La ricerca sulle demenze è stata per molti anni polarizzata sulle alterazioni neuropatologiche (placche amiloidi e grovigli neurofibrillari di proteina Tau) descritte dallo stesso Alzheimer nel 1906 e sui possibili meccanismi patogenetici del danno neurologico, con la speranza di individuare una terapia causale. I target della ricerca farmacologica si sono concentrati prevalentemente sull’amiloide con investimenti importanti e forti aspettative su alcuni farmaci che avevano dimostrato un effetto anti-amiloide in fase preclinica, ma nessuna influenza sul decorso della malattia.

Il fallimento di molti farmaci nei trials clinici dipende probabilmente dall’insieme di molte condizioni: la mancanza di un unico e definito meccanismo patogenetico, la presenza di una molteplicità di fattori causali (genetici, ambientali, stili di vita, invecchiamento cerebrale), la complessità fisiopatologica e la comorbilità presente nella popolazione anziana .

Nella ricerca farmacologica si sta facendo sempre più strada l’idea che i trattamenti farmacologici che possono modificare l’evoluzione della malattia (disease modifying) andrebbero iniziati nelle fasi asintomatiche della malattia ma già attive dal punto di vista patogenetico.

Queste considerazioni hanno spinto a considerare di più il ruolo dei marcatori biologici indicativi di degenerazione neuronale che possono essere rilevati già nelle fasi precliniche /precoci quando ancora non si è manifestata la malattia che sono misurabili nel plasma, nel liquor o con l’imaging strutturale (risonanza magnetica) o funzionale (FDG-PET) che valuta la riduzione della captazione del glucosio e quindi l’ipometabolismo in determinate aree cerebrali, mentre con la C-PIB PET si possono individuare i depositi di beta Amiloide .

Tuttavia , allo stato attuale delle conoscenze, mentre è stata dimostrata l’utilità di tali indagini nell’ambito della ricerca o per dirimere dubbi diagnostici in casi di demenze ad esordio precoce ed atipico, non vi sono evidenze per una loro applicazione nelle fasi precliniche a fronte dei costi molto elevati, dei potenziali falsi positivi e negativi con i conseguenti rischi sul piano etico e psicologico.

Un campo molto importante di ricerca che non coinvolge direttamente le industrie farmaceutiche ma i servizi sanitari e sociali è rappresentato dagli interventi di tipo preventivo del danno cognitivo mirati ai principali fattori di rischio comuni in età avanzata. In Europa sono state condotte sperimentazioni (RCT) pionieristiche di prevenzione multidominio in anziani che vivono in comunità: il primo è stato lo studio di intervento geriatrico finlandese per prevenire il danno cognitivo e la disabilità (FINGER ) che ha dimostrato che è possibile prevenire il declino cognitivo in anziani a rischio di demenza, utilizzando un intervento multidominio basato sia sullo stile di vita con esercizio fisico, dieta, stimolazione cognitiva e sociale, sia sulla gestione di fattori di rischio vascolari/metabolici. Altre due esperienze, abbastanza simili al precedente sono: il Multidominio Alzheimer Preventive Trial (MAPT) francese e quello olandese per la Prevenzione della Demenza mediante terapia vascolare intensiva (PreDIVA).

Le esperienze e i risultati di questi studi hanno evidenziato l’importanza di affrontare più fattori di rischio di demenza come strategia per proteggere la salute del cervello e promuovere la salute generale e il funzionamento cognitivo. Questo tipo di interventi prevede un impegno dell’insieme dei servizi e del welfare che è molto diverso a seconda delle situazioni geografiche, economiche e culturali e pone la necessità di valutazioni di accessibilità e sostenibilità. Anche se non così organizzate e con meno risorse, in molte comunità si sono sviluppate strategie assistenziali innovative (l’ambiente protesico, la musicoterapia, la pet therapy, il Memo film) e di tipo psicosociale (stimolazione cognitiva, tecniche di validation) rivolte al benessere e alla qualità della vita delle persone ammalate e dei loro familiari.

Questo patrimonio culturale, attraverso la formazione del personale di assistenza, si è diffuso negli ambienti di cura e di assistenza e ha migliorato l’accettazione e la percezione sociale della malattia che viene sempre meno stigmatizzata. La cultura in generale e molte espressioni artistiche e della grande comunicazione hanno contribuito a sensibilizzare anche chi non si occupa per necessità o per professione di questa malattia perché la fragilità dell’uomo che perde le funzioni cognitive interroga tutti nel profondo e fa emergere riflessioni spesso dimenticate quali l’importanza della relazione, del contato e della vicinanza.